Economia

Il mercato del lavoro USA: tra inflazione e recessione

31 marzo 2023

La disoccupazione è una delle variabili economiche più importanti da valutare per comprendere in che fase del ciclo economico ci si trova, in modo da capire l’evoluzione futura dell’economia, il suo stato di salute, e le possibili politiche monetarie che le Banche Centrali potrebbero intraprendere. Il tasso di disoccupazione è una componente ciclica dell’economia, aumentando o contraendosi in base al suo andamento. Le politiche economiche, come quelle di crescita e fiscali realizzate dai governi o quelle monetarie, condotte dalle Banche Centrali, hanno un impatto diretto sulla disoccupazione di un Paese o di una specifica area (es. Unione Europea). La misura statistica più importante dell’occupazione è il tasso di disoccupazione, che indica il rapporto tra le persone disoccupate in cerca di lavoro e la forza lavoro totale nazionale (la forza lavoro indica la somma dei disoccupati, ossia delle persone in cerca di lavoro, e degli occupati, ossia coloro che hanno già un lavoro).

L’obiettivo di governi e Banche Centrali è quello di raggiungere nel medio-lungo termine la piena occupazione, garantendo il benessere dei cittadini. Tuttavia, esistono situazioni in cui, come quella attuale, un tasso di disoccupazione basso può rappresentare un problema. Sembra strano, ma in alcune fasi economiche, un aumento del numero dei disoccupati è una buona notizia per i c.d. policy maker.

L’economia segue infatti un ciclo, o meglio più cicli di breve e di lungo termine. Quando questa è in difficoltà, ossia quando il PIL, e i profitti aziendali si contraggono, e si assiste ad un aumento della disoccupazione, le Banche Centrali adottano delle politiche monetarie stimolanti, riducendo i tassi di interesse e aumentando la liquidità nel sistema attraverso programmi di allentamento quantitativo (QE). Il costo del denaro diminuisce consentendo ad imprese e famiglie di incrementare la propria capacità di spesa (reddito + credito). In altri termini, si stimola la domanda, innescando una ripresa dell’economia. Gli acquisti di un consumatore rappresentano infatti il reddito di un altro individuo. Per questo motivo, quando le politiche monetarie stimolano l’economia, e i governi riescono nell’allocare al meglio le risorse, la disoccupazione cala. Le imprese infatti possono prendere una quantità maggiore di denaro in prestito, oltre che aumentare i ricavi sostenuti da un livello di spesa più alto da parte dei consumatori. Ciò consente loro di aumentare il capitale umano in azienda, necessario per spingere ulteriormente i propri tassi di crescita. L’economia è allora nella sua fase di espansione e i salari tendono ad aumentare. Quando l’economia cresce e il numero di disoccupati diminuisce, le aziende devono necessariamente aumentare i salari per attrarre una forza lavoro maggiore. 

Tuttavia, un costo del denaro quasi nullo non è sostenibile nel lungo termine. Questo spinge gradualmente i prezzi dei beni, servizi e asset finanziari, in alto, aumentando l’inflazione. Si crea infatti una discrepanza tra l’economia reale e quella finanziaria, o meglio tra prezzo e valore, per via dell’assenza nel breve termine di un parallelo aumento della produttività. Si arriva ad un punto in cui l’economia diventa surriscaldata, un momento in cui il tasso di inflazione diventa insostenibile. Le Banche Centrali non hanno solo l’obiettivo di aumentare l’occupazione, ma anche di stabilizzare i prezzi, mantenendo il tasso di inflazione al di sotto dei propri target, generalmente pari al 2%. Queste sono quindi “obbligate” a raffreddare l’economia, intraprendendo delle politiche monetarie restrittive basate su un aumento dei tassi di interesse e della riduzione della moneta in circolazione (Quantitative Tightening). Tali politiche rappresentano lo strumento principale per ridurre l’inflazione, o meglio per influenzare le aspettative in merito all’aumento futuro dei prezzi. Aumentando il costo del denaro, imprese e individui hanno una minore capacità di spesa, il che si riflette in una contrazione della domanda e quindi in una graduale discesa del tasso di crescita dei prezzi. Un inasprimento della politica monetaria può portare l’economia in recessione, se ciò diventa necessario per stabilizzare i prezzi. Questo è il motivo per cui, in alcune fasi del ciclo economico, un aumento della disoccupazione può essere una buona notizia, in quanto segnala un raffreddamento dell’economia e che le azioni intraprese dalle Banche Centrali stanno generando gli effetti desiderati per frenare l’inflazione. Le politiche monetarie producono i propri effetti nell’economia con un certo ritardo, anche di 18 mesi, e fin quando l’economia reale non inizierà a contrarsi insieme all’inflazione, per i mercati, come quello azionario, un continuo aumento dei tassi sarà peggiore di un aumento della disoccupazione. Gli investitori, proprio come oggi, non desiderano altro che l’economia inizi a vacillare, così che le Banche Centrali intraprendano il famigerato pivot, ossia invertano le proprie politiche, riducendo i tassi di interesse e iniettando nuova liquidità nel sistema. Quando si entrerà in recessione, la disoccupazione aumenterà e la crescita dei prezzi si stabilizzerà al di sotto dei target (un evento su cui molti analisti sono in disaccordo in quanto si pensa che l’inflazione sarà persistente tra il 3-4%), le Banche Centrali inizieranno nuovamente a stimolare l’economia, dando vita ad un nuovo ciclo di breve termine. Tuttavia, non sempre l’inflazione scende in concomitanza di un c.d. Soft Landing, quindi di una lieve recessione. La sua portata dipende da quanto le Banche Centrali debbano spingersi con l’aumento dei tassi per strappare completamente la radice dell’inflazione. Non ha molto senso procedere con un pivot e assistere pochi mesi dopo ad un ulteriore balzo dell’inflazione.

Accade quindi che durante periodi di crisi economica, le società tendono ad assumere meno personale oppure ad effettuare licenziamenti, se la domanda e la produzione si contraggono e se le prospettive sono molto pessimistiche. Osservando l’andamento del tasso di disoccupazione negli Stati Uniti (linea blu), si nota come questo sia sempre aumentato bruscamente in fasi recessive dell’economia (aree grigie) e quando i tassi di interesse di riferimento USA (FED FUNDS) sono aumentati. Un aumento dei tassi di interesse ha quasi sempre preceduto un aumento della disoccupazione e una recessione concomitante. Inoltre, il grafico seguente, può anche essere interpretato diversamente: quando il tasso di disoccupazione raggiunge il minimo in uno specifico ciclo economico, si è quasi sempre materializzata una recessione poco dopo. I tassi di interesse possono quindi essere considerati un indicatore leading per il tasso di disoccupazione. La disoccupazione è infatti un lagging indicator, muovendosi dopo, o comunque contemporaneamente, al deteriorarsi delle condizioni economiche e finanziarie.

Dopo la crisi finanziaria del 2008, il mondo ha affrontato una delle peggiori recessioni della storia moderna. Era necessario intervenire pesantemente, e ciò fecero le principali Banche Centrali al mondo. FED e ECB intrapresero degli enormi programmi di stimolo, iniettando moneta a ritmi sostenuti, e portando i tassi di interesse a zero. Tali politiche si accentuarono dopo la crisi pandemica del 2020. L’economia si risollevò, ritornò a crescere, la disoccupazione calò, e i prezzi degli asset finanziari, soprattutto azioni, raggiunsero livelli record. Questo fino al 2022, quando l’inflazione raggiunse i livelli più alti mai visti negli ultimi 40 anni. Le Banche Centrali hanno iniziato ad aumentare i tassi di interesse e a ridurre gli attivi del proprio bilancio, con l’obiettivo di frenare l’inflazione. Tuttavia, il mercato del lavoro negli USA è ancora oggi molto forte: a gennaio 2023, il tasso di disoccupazione ha toccato il minimo degli ultimi 53 anni, il 3,4%, prima di attestarsi ad un livello leggermente superiore a febbraio 2023, al 3,6%. Nei primi due mesi dell’anno sono stati aggiunti in USA circa 800.000 nuovi lavoratori non agricoli, un dato che dovrebbe essere molto incoraggiante, ma non per la FED. I 311.000 posti di lavoro non agricoli aggiunti a febbraio sono stati inferiori al mese precedente ma rappresenta un numero molto più alto dei 220.000 previsti, e un numero maggiore della media dal 2010 al 2019 pari a 183 mila posti di lavoro aggiunti ogni mese. Il settore del tempo libero e dell’ospitalità ha rappresentato un terzo dei posti di lavoro creati il mese scorso. Nel grafico il numero dei lavoratori aggiunti mese per mese da febbraio 2021 a febbraio 2023:

La percentuale della popolazione statunitense che lavora o cerca attivamente lavoro – nota come tasso di partecipazione alla forza lavoro – è salita al 62,5%, il livello più alto dalle prime fasi della pandemia.   

Cosa sta spingendo le persone che hanno abbandonato la forza lavoro a rientrare nel mercato? Una spiegazione risiede nel fatto che queste persone hanno iniziato a sentire nell’ultimo anno le pressioni di un’inflazione più elevata, che comprime il loro reddito reale. Durante il 2020-2021, molte di queste hanno ricevuto generosi trasferimenti dal governo federale e sono state in grado di risparmiare una parte significativa dei proventi. Nell’ultimo anno, però, il tasso di risparmio delle famiglie è crollato poiché gli aiuti federali sono stati gradualmente eliminati. Goldman Sach stima che gli americani hanno esaurito il 35% dei risparmi extra accumulati. Di conseguenza, chi prima non cercava lavoro (e quindi non rientrava nei calcoli sulla disoccupazione), ora lavora, bilanciando la domanda da parte delle imprese, supportata dalla più rapida crescita economica degli ultimi 40 anni in seguito alla ripresa della pandemia.

La crescita dei salari, uno dei fattori più importanti per valutare l’inflazione, è aumentata notevolmente negli ultimi 2 anni e si è mantenuta al di sopra del 6% da marzo 2022, nonostante la retribuzione oraria media stia gradualmente rallentando su base mensile (nel grafico seguente si considera una media mobile a tre mesi del salario). La crescita dei salari può essere un’ottima notizia ma non quando innesca una spirale di crescita dell’inflazione.

Il mercato del lavoro rimane quindi ancora molto forte, e in più occasioni Jerome Powell, Presidente della Federal Reserve, ha ribadito quanto ancora ci sia da fare per ridurre l’inflazione, facendo riferimento alla stabilità della forza lavoro USA. La Banca Centrale USA si rivolge ad un mercato del lavoro afflitto da un forte squilibrio tra domanda e offerta in cui ci sono quasi due posti di lavoro aperti per ogni disoccupato disponibile. L’ultima Job Opening and Labour Turnover Survey (JOLTS) ha mostrato come le opportunità di lavoro sono salite a 11 milioni a dicembre dai 10,4 milioni di novembre.

Guardando al passato, si potrebbe pensare che fin quando non si innescherà una recessione, quindi un aumento del tasso di disoccupazione, l’inflazione potrebbe tardare a scendere fino ai target della FED (2%). Nonostante, infatti, il tasso di inflazione sia in discesa dal picco dell’anno scorso, attestandosi ora al 6%, esso rappresenta ancora un valore decisamente elevato rispetto agli obiettivi della Banca Centrale. Powell più volte ha citato l’importanza del raggiungimento dei target e sembra ora difficile che il FOMC ripieghi, diminuendo i tassi di interesse, nonostante il recente terremoto nel sistema bancario possa aiutare nel rafforzare gli effetti dell’inasprimento monetario. Tuttavia, come descritto in precedenza, gli effetti delle politiche monetarie sull’economia reale tendono a manifestarsi con un certo ritardo, e il più rapido aumento dei tassi di interesse di sempre, potrebbe ancora non essersi addentrato completamente nei meccanismi economici. Inoltre, un mercato del lavoro forte e resiliente, non è solo una “cattiva” notizia per l’inflazione, ma anche per la produttività. Secondo la teoria economica, il mercato del lavoro raggiunge un punto in cui ogni posto di lavoro aggiunto non creerà una produttività sufficiente a coprirne il costo, rendendo ogni lavoratore successivo a quel punto inefficiente. L’economia in tali fasi risulta essere a pieno regime. Gli economisti suggeriscono che quando il tasso di disoccupazione negli USA scende al di sotto del 5%, l’economia è molto vicina al pieno regime. Di conseguenza, il tasso di disoccupazione attuale, del 3,6%, risulterebbe “troppo basso”, segnalando che l’economia USA sta diventando inefficiente. Un tasso del genere, attribuisce anche un maggiore potere contrattuale ai lavoratori, che possono richiedere un salario più alto, incidendo sulla redditività di un’azienda, e quindi sull’inflazione.

Non tutti i settori dell’economia presentano ancora un mercato del lavoro forte. Basti pensare all’Information Technology: negli ultimi mesi molte note aziende tech, come Meta, Amazon, Salesforce, Roku, Accenture, Microsoft, Zoom, PayPal, Alphabet, Coinbase e altre ancora, hanno annunciato un corposo taglio del personale, dopo aver aumentato drasticamente il numero di assunzioni nel 2020-21 (Tassi di interesse a zero e QE hanno consentito un rapido aumento delle assunzioni delle società tech in quegli anni).

La domanda che in molti si pongono è se l’aumento dei tassi di interesse e il suo prolungarsi porterà ad una recessione grave, soft o a nessun tipo di recessione. La FED può continuare ad alzare i tassi di interesse e sconfiggere la peggiore ondata di inflazione degli ultimi 40 anni senza provocare una recessione? Secondo una notevole ricerca condotta da importanti economisti e funzionari della FED, che ha esaminato i periodi di alta inflazione dal 1950, “non ci sono precedenti post-1950 per una considerevole… disinflazione che non comporti sostanziali sacrifici economici o recessione”. Gli autori prevedono che se la FED dovesse aumentare i tassi di interesse tra il 5,2 e il 5,5% nelle prossimi riunioni, il tasso di disoccupazione salirebbe al 5,1% entro la fine del 2023. Se ci sarà o meno una recessione è una questione ancora aperta e in molti sono in disaccordo. Alcuni economisti hanno indicato periodi in cui la FED ha raggiunto con successo un atterraggio morbido, nel 1983 e nel 1994. Eppure, in quei periodi, l’inflazione non era così grave come lo era nel 2022, quando raggiunse il picco del 9,1% a giugno. In quei casi precedenti, la FED ha alzato i tassi per prevenire l’inflazione, piuttosto che per ridurla quando era già elevata.

Durante uno dei periodi probabilmente più simili a quello odierno, negli anni ’80, una delle politiche monetarie più aggressive di sempre condotta dall’allora presidente della FED Paul Volcker generò due massicce, ma brevi recessioni. L’espansione monetaria degli anni precedenti, la crisi energetica del 1979 e l’inefficace politica condotta dal Presidente Nixon volta a congelare salari e prezzi, spinsero il tasso di inflazione ad un livello record: il CPI raggiunse nel 1980 il 14,6%. Volcker portò, audacemente, i FED Funds a circa il 20%. Ne conseguirono le due recessioni, la prima nel 1980 e la seconda nel luglio del 1981: durante la prima il tasso di disoccupazione raggiunse il 7,8%, e successivamente raggiunse il picco del 10,8% (osserva il grafico successivo). Frenare l’inflazione significò portare l’economia in recessione. Il 1983, diede inizio a quello che sarebbe stato un cambiamento epocale, o meglio ad un sea change, secondo il noto investitore Howard Marks: una repentina discesa dei tassi di interesse, fino al 2022. Gli anni della Great Inflation rappresentano una buona interpretazione del meccanismo del ciclo economico e di quanto sia stato necessario architettare un aumento del tasso di disoccupazione, o meglio due recessioni, per frenare l’inflazione attraverso una forte stretta monetaria condotta dalla FED. Tuttavia, anche se la storia può aiutarci a capire il futuro, ogni periodo può differire in alcuni aspetti da quelli odierni e futuri, rendendo complicato prevedere con esattezza il dispiegarsi degli eventi.

Si può provare a comprendere l’evoluzione del tasso di disoccupazione nel prossimo futuro anche guardando ad alcuni leading indicator (come nel caso precedente in cui abbiamo osservato come un aumento del tasso di disoccupazione è quasi sempre stato preceduto da un corposo aumento dei tassi di interesse negli USA). Basti pensare al Credit Spread, in particolare alla differenza tra il rendimento di un titolo obbligazionario ad alto rendimento (alto rischio) e il tasso di rendimento del titolo di Stato a lungo termine (basso rischio). Nel grafico è indicata la relazione tra l’ICE BofA US High Yield Index Option-Adjusted Spread (OAS) (il Credit Spread) e il tasso di disoccupazione: un aumento del credit spread è stato seguito da un aumento della disoccupazione dal 1997 ad oggi, eccetto che nel 2015. Lo spread aumenta quando il sistema bancario tende a deteriorarsi. L’indice è in incremento.

Da ciò che il passato ci sussurra, dal sentiment diffuso, dalla consapevolezza dell’esistenza dei cicli economici, dai dati attuali, e dagli obiettivi della FED sembra quasi inevitabile il manifestarsi di una recessione, e di un aumento più marcato del tasso di disoccupazione. D’altronde, esaminando il Dot Plot rilasciato la scorsa settimana dal FOMC, in cui vengono esposte periodicamente le previsioni dei funzionari della FED in merito all’andamento nel prossimo futuro dell’economia e dei tassi di interesse, si può osservare come il tasso di disoccupazione stimato entro fine 2023 e nel 2024 sia pari al 4,6%. Supponendo che la dimensione della forza lavoro rimanga la stessa, secondo tale proiezione, ci sarebbero 1,7 milioni di disoccupati in più rispetto a quelli attuali. I lavoratori che verranno licenziati non verranno riassunti così rapidamente, a differenza della situazione attuale in cui ci sono ancora troppi posti di lavoro per ogni lavoratore. Tuttavia, è lecito chiedersi: quanto è probabile che nel momento in cui l’inflazione ha raggiunto il livello record degli ultimi 40 anni, continuando ad essere radicata (si consideri la misura preferita della FED: il PCE), e abbiamo assistito al più rapido aumento dei tassi di interesse della storia, si provochi solamente l’incremento di un punto percentuale del tasso di disoccupazione? Il 4,6% è una stima basata su un “atterraggio morbido” dell’economia, ma sono in molti a sostenere l’inizio di una recessione più profonda. Il Fondo Monetario Internazionale stima un tasso di disoccupazione negli Stati Uniti in media pari a 5,4% fino al 2024-25, equivalente a 3 milioni di lavoratori in più senza lavoro. Numeri davvero spaventosi se si pensa al lavoratore come individuo e non come semplice statistica, ma meno spaventosi del 2008, quando il tasso di disoccupazione raggiunse il picco del 10%.

Solo una volta dagli anni ’60 il tasso di disoccupazione è rimasto al di sotto del 6% durante o subito dopo una recessione.

Per comprendere ulteriormente in che fase si trovi attualmente il mercato lavoro USA è utile osservare le richieste di disoccupazione (Jobless Claims). Durante la settimana passata, le domande iniziali per l’assicurazione contro la disoccupazione sono aumentate, ma sono rimaste generalmente basse. Tali richieste per la settimana terminata il 25 marzo sono state pari a 198.000, in aumento di 7.000 rispetto al periodo precedente e leggermente superiori alla stima di 195.000, ha riferito il Dipartimento del Lavoro USA. Anche se il numero è stato maggiore delle stime (una notizia positiva per la FED), il totale indica che le aziende sono ancora lente nel licenziare i lavoratori, senza mostrare segnali che l’inasprimento delle condizioni del credito innescato dalla FED, stia avendo un impatto materiale sul mercato del lavoro. Tuttavia, l’aumento dei tassi di interesse e i recenti crash delle banche regionali USA, dovrebbero con un certo ritardo, come letto in precedenza, rendere più difficile l’accesso al credito per le piccole imprese, con un potenziale calo della domanda di lavoro.

Secondo un’analisi di Goldman Sachs, il tempo libero, l’ospitalità e altri settori dei servizi dipendono fortemente dai prestiti bancari. GS prevede un prossimo rallentamento della crescita dell’occupazione in questi settori, poiché “la ridotta disponibilità di prestiti dissuade gli operatori di ristoranti e altre piccole imprese dall’assumere nuovi lavoratori e aprire nuovi stabilimenti.”

Un altro indicatore da osservare per capire lo stato di salute del mercato del lavoro sono le ore lavorative settimanali: la settimana lavorativa media è scesa a 34,5 ore dalle 34,6 di gennaio, suggerendo che molti dei posti di lavoro creati potrebbero essere part-time e che quindi il mercato del lavoro stia iniziando a rallentare.

Crescita economica e occupazionale, e inflazione, rappresentano uno spinoso trade-off per Banche Centrali, economisti e governi, ma la storia ci insegna che fasi turbolente dell’economia sono necessarie per favorire la crescita nel lungo termine. Tuttavia, un aumento della disoccupazione, una recessione, sono positivi solo nel caso in cui si ragiona in termini macroeconomici e politici, ma MAI quando si considera il singolo come individuo e non come statistica.

Fonti:

  • Reuters 
  • Investopedia
  • CNBC
  • Dot Plot FED Marzo 2023
  • TechCrunch
  • FRED
  • Investment Monitor
  • The Hill
  • Market Watch
  • Bureau Labor Statistics
  • NPR.org

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