Mercato Azionario

I bear market dal 1966: tra inflazione e politiche monetarie restrittive

6 gennaio 2023

Dal 1961 al 2021 ci sono stati dieci mercati ribassisti nell’indice principale degli Stati Uniti, lo S&P 500, caratterizzati da una durata compresa tra uno e 31 mesi. Nell’articolo verranno presentati i mercati ribassisti dell’S&P 500 in tempi di inflazione e politiche monetarie restrittive.

Un mercato ribassista, o bear market, è una situazione in cui, secondo gli esperti, il mercato azionario contrae le sue valutazioni, quindi i prezzi, del 20% o più.  Quando l’incertezza e/o l’instabilità economica si diffondono gli investitori diventano maggiormente avversi al rischio e preferiscono vendere le proprie azioni, rifugiandosi in attività finanziarie più sicure, come obbligazioni, beni reali (es. oro), liquidità. Un bear market può manifestarsi anche prima che gli eventi economici diventino realtà: gli investitori scontano nei prezzi delle azioni i possibili eventi futuri. Per questo motivo il mercato azionario è considerato un leading indicator, ossia un indicatore capace di anticipare ad esempio, l’andamento dell’economia reale e le politiche monetarie. Esso è ovviamente supportato da altri indicatori ed eventi anticipatori che spingono gli investitori ad assumere una decisione piuttosto che un’altra.

Le cause alla base di un bear market possono essere numerose e differenti, andando ad influenzare la portata e la durata dei ribassi con più o meno forza. Tra i 10 bear market analizzati dal 1961 al 2021, sei di questi sono stati alimentati principalmente da un’inflazione elevata e dagli aumenti dei tassi di interesse di riferimento della FED, la Banca Centrale USA. Nei sei ribassi, l’S&P 500 ha raggiunto il bottom, invertendo il trend e rientrando in maniera persistente in territorio positivo, due volte contemporaneamente al primo taglio dei tassi, tre volte dopo il primo taglio dei tassi e una volta prima del taglio dei tassi.

Politiche monetarie ed economia: un po' di teoria

L’economia segue dei cicli di breve-medio periodo di espansione e contrazione. Le banche centrali devono adattare le politiche monetarie alle condizioni dell’economia. Se l’economia è in recessione, quindi il PIL si contrae, le banche centrali dovrebbero diminuire i tassi di interesse attraverso una politica monetarie espansiva/accomodante, che stimola la domanda e la ripartenza. Nell’ultimo decennio, sono state promosse anche politiche monetarie non convenzionali, come il Quantitative Easing, volte a migliorare lo stato di salute dell’economia. In periodi di espansione economica, anche i mercati azionari danno il meglio di sé.

Ciò accade fin quando l’economia e i mercati finanziari non diventano troppo surriscaldati: una maggiore quantità di moneta in circolazione e una capacità di spesa della domanda sempre più forte, aumentano i prezzi, quindi il tasso di inflazione inizia a correre, superando i target delle banche centrali. In questo scenario, le banche centrali devono frenare l’inflazione, adottando politiche monetarie restrittive, indirizzate a raffreddare l’economia e la crescita dei prezzi. I tassi di interesse aumentano e si svuotano i bilanci delle banche centrali, attraverso programmi di Quantitative Tightening (se preceduti da QE).

Gli investitori iniziano a percepire una certa instabilità: l’inflazione aumenta i costi per le imprese e riduce il potere di acquisto degli individui, che devono ricorrere ai propri risparmi (svendendo anche i propri asset) per fare la spesa e pagare bollette più salate. Tassi di interesse più alti riducono la capacità di prendere a prestito del denaro, rinunciando all’acquisto di beni ciclici e discrezionali, e inducono gli investitori a valutare negativamente le società i cui flussi di cassa sono spostati soprattutto in futuro (tassi di sconto più alti > valori attuali più bassi). Inoltre, gli investitori tendono ad essere più avversi al rischio, e il mercato azionario è storicamente considerato più rischioso delle altre asset class. Di conseguenza, si preferisce vendere azioni e acquistare obbligazioni che garantiscono ora un rendimento più alto. Tuttavia, quando l’inflazione è molto alta, gli investitori scaricano anche i bond, come accaduto nel 2022.

Infine, più l’inflazione è alta e persistente, più le politiche monetarie continueranno ad essere restrittive, e più aumenta il rischio recessione. Le banche centrali possono, nell’intento di far rientrare l’inflazione nei target, spingersi anche facendo raffreddare l’economia a tal punto di farla contrarre. Per questo motivo, gli investitori iniziano a scontare nei prezzi azionari, non solo l’inflazione, i tassi di interesse alti, ma anche l’arrivo imminente di una recessione. Il bear market si fortifica e la discesa continua. Potrebbero aggiungersi rischi geopolitici e altri eventi negativi (anche inaspettati). Il mercato azionario non inizierà un nuovo rally a rialzo fin quando le banche centrali non avranno quanto meno annunciato un taglio dei tassi di interesse, l’inflazione starà scendendo repentinamente, la recessione sarà stata gestita, e i rischi geopolitici saranno minimizzati. In altri termini, non inizierà un bull market fino a quando gli investitori saranno più propensi al rischio, meno impauriti dagli eventi di breve termine, e avranno “sotto controllo” l’incertezza intrinseca ai mercati finanziari.

Dopo aver scoperto la base teorica di un bear market, in maniera molto riassuntiva, scopriamo i 6 peggiori mercati ribassisti dell’indice S&P 500 (rappresentativo delle 500 società più capitalizzate degli USA) degli ultimi 60 anni, causati da inflazione elevata e politiche monetarie restrittive (escludendo il più recente che ancora non è terminato).

1. Il bear market del 1966

Il mercato ribassista iniziò nel febbraio 1966 e durò per 8 mesi: l’S&P 500 perse in questo periodo il 22% del proprio valore e impiegò 7 mesi per ritornare ai livelli pre-bear market. Nei decenni precedenti si assistette ad una forte crescita economica e del mercato azionario statunitense, in seguito alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Nei primi anni ’60 il Presidente Lyndon Johnson promosse il Great Society, un insieme di programmi nazionali di riforma e di stimolo volti ad eliminare la povertà e l’ingiustizia razziale. Furono lanciati nuovi programmi di spesa nel campo dell’istruzione, delle cure mediche, dei problemi urbani e dei trasporti.

Tali stimoli furono però accompagnati dalla Guerra in Vietnam che costrinse il governo USA a spostare parte dei finanziamenti per il Great Society al supporto della guerra. La poderosa crescita economica dei decenni precedenti e i nuovi programmi di stimolo spinsero la FED a adottare una politica monetaria restrittiva nei primi mesi del 1966, ma in autunno fu costretta a condurre operazioni di mercato aperto per salvare il mercato dei muni-bond. Fu uno dei bear market più brevi (anche in termini di recovery) e non fu accompagnato neanche da una recessione. Tuttavia, la causa principale potrebbe non essere stata l’inasprimento delle politiche monetaria. Molti, infatti, hanno dato anche colpa alla crisi dei municipal bond, e/o alle implicazioni economiche della Guerra in Vietnam. I mercati ribassisti possono avere alla base numerose cause, in quanto i mercati azionari rappresentano il giudizio di tutti gli investitori e ognuno di questi potrebbe avere un motivo differente per disinvestire. In ogni caso, il bear market del 1966 fu il presagio per i successivi più importanti cali: l’inflazione iniziava a correre!

2. Il bear market del 1969

Il mercato ribassista del 1969-70 iniziò nel dicembre 1968 e durò per un anno e mezzo, con l’S&P 500 che perse circa il 36% del suo valore prima di toccare il fondo. La spesa massiccia per la guerra in Vietnam aggravarono la bilancia dei pagamenti statunitense e l’inflazione. Nel tentativo di anticipare la lotta all’inflazione, il Presidente Johnson e il Congresso concordarono un corposo aumento delle tasse e un taglio della spesa di circa $6 miliardi. Misure volte a raffreddare la domanda e quindi i prezzi. La FED ovviamente intraprese una politica monetaria restrittiva, alzando i tassi di interesse di riferimento (FED Funds) fino al 9% (agosto 1969). Nel grafico si osserva la crescita dell’inflazione e dei FED Funds fino al taglio dei tassi di interesse e la discesa dei prezzi:

Come si nota dalla zona grigia, l’aumento dei tassi di interesse e le difficoltà economiche portarono gli USA in recessione nel dicembre 1969. Dal grafico seguente si può osservare meglio la contrazione del PIL USA (in blu) e la produzione industriale (in rosso) durante la recessione dei primi anni ’70. La recessione durò 11 mesi.

La FED tagliò i tassi nel febbraio 1970: i mercati azionari risposero positivamente al pivot e uscirono dal bear market il 26 maggio 1970, iniziando un nuovo rally.

Il 1970 diede inizio anche a quella che è considerata la più grande corso all’oro della storia, con il prezzo dell’oro che intraprese una forte ascesa per tutto il decennio. Nel grafico l’andamento del prezzo dell’oro in quegli anni:

3. Il bear market del 1973

Durante il mercato ribassista iniziato nel gennaio del 1973, l’S&P 500 perse ben il 48% in 21 mesi, fino a settembre 1974. Le cause principali del crollo dell’azionario in quegli anni possono rintracciarsi in alcuni eventi e fattori, che indussero gli investitori domestici ed esteri a percepire gli Stati Uniti un’economia ormai instabile:

– La guerra stremante in Vietnam e i suoi esiti inflazionistici

– Espansione della previdenza sociale e ulteriori effetti inflazionistici

– Congelamento salari e prezzi da parte di Nixon

– Il crollo del sistema di Bretton Woods nei due anni precedenti

– L’embargo petrolifero dell’OPEC e lo scoppio della crisi petrolifera nel 1973

– Lo scandalo del Watergate

Nel biennio 1972-1974, l’economia americana rallentò da una crescita del PIL reale del 7,2% ad una contrazione del -2,1%, entrando quindi in recessione. L’inflazione passò dal 3,4% nel 1972 al 12,3% nel novembre 1974. La FED, anche in tal caso, decise di adottare una politica monetaria restrittiva e il pivot avvenne nel luglio 1974, con i FED Funds che passarono dal 13% (picco massimo in luglio) al 10,96% in settembre e al 5,54% ad aprile 1975. L’S&P 500 terminò i ribassi a settembre 1974. Nel grafico il confronto tra il tasso di inflazione e i FED Funds:

La storia vede nei Paesi arabi il colpevole principale dell’inflazione in quegli anni. Tuttavia, la causa principale va ricercata nelle politiche espansive errate del governo USA e della FED. Il Presidente Nixon per vincere le elezioni buttò benzina sul fuoco, sostituendo l’allora presidente della FED con un suo consigliere, e spingendolo ad abbassare i tassi di interesse per promuovere una crescita di breve termine e far sembrare l’economia forte agli elettori. Tuttavia, fu una mossa sbagliata: la disoccupazione aumentò, l’inflazione divenne a doppia cifra e le famiglie trovavano difficile pianificare gli acquisti di settimana in settimana. L’effetto profondamente inquietante dell’inflazione erose la loro fiducia nel tenore di vita e nella leadership del Paese, dopo decenni di boom economico. Secondo il noto Economista Milton Friedman “l’inflazione è sempre un fenomeno monetario” e le cause dell’inflazione di quegli anni vanno ricercate soprattutto nelle politiche espansive del governo e della banca centrale.

Inoltre, dopo la discesa dell’inflazione nella seconda metà del 1974, in molti sostengono come la FED abbia commesso un errore nel tagliare i tassi di interesse così prematuramente. Infatti, dopo un iniziale calo dell’inflazione, essa riprese a correre in maniera molto più forte rispetto a prima, portando al successivo bear market dell’S&P 500.

4. Il bear market del 1980

Gli anni ’70 sono conosciuti come gli anni della Grande Inflazione. Infatti, dopo il repentino aumento del tasso di inflazione dei primi anni ’70 e il successivo declino, esso riprese a correre significativamente, ritornando a doppia cifra e superando i livelli precedenti. Dal grafico si nota la doppia ondata di quegli anni, con la seconda più alta: il CPI raggiunse il 14,6%.

L’espansione monetaria degli anni precedenti e la crisi energetica del 1979 spinsero nuovamente i prezzi a rialzo. Nixon bloccò l’inflazione dei primi anni ’70 congelando salari e prezzi, ma fu una strategia che ebbe risultati solo nel breve termine. Infatti, il problema ritornò poco dopo. Fu in quel momento che entrò in gioco Paul Volcker, il nuovo presidente della FED che riuscì a tenere sotto controllo l’inflazione attraverso l’equivalente economico della chemioterapia: progettò due massicce, ma brevi, recessioni, per tagliare la spesa e far scendere l’inflazione. Si susseguirono quindi due recessioni, la prima nel 1980 e la seconda nel luglio del 1981: nel 1980 la disoccupazione raggiunse il 7,8%, mentre nel dicembre 1981 raggiunse il picco del 10,8%. I tassi di interesse raggiunsero il livello record di circa il 20% e furono efficaci nel frenare l’inflazione. L’economia USA dopo il 1982 ripartì con forza. L’S&P 500 perse in quegli anni circa il 27%, fino a quando nell’ottobre del 1982 Volcker segnalò che la FED avrebbe iniziato a tagliare i tassi con più frequenza.

5. Il bear market del 1987

Durante il bear market del 1987 l’S&P 500 perse il 34% del suo valore in poco più di 2 mesi, con la maggior parte del calo che si verificò in una sola settimana. L’S&P 500 recuperò i livelli precedenti al bear market in 20 mesi. Il 19 ottobre del 1987 divenne noto come il Lunedi Nero. L’inasprimento della politica monetaria della FED avvenne in seguito agli effetti degli Accordi del Plaza e del Louvre che miravano a stabilizzare i cambi valutari internazionali prima per contrastare il persistente apprezzamento del dollaro registrato nella prima metà degli anni ’80 e dopo per frenare il continuo declino del dollaro. Nel grafico l’andamento del dollaro, lo U.S. Dollar Index. Si nota una sua forte ascesa e un suo forte declino negli anni ’80:

La FED, per fermare il declino del dollaro, decise di aumentare i tassi di interesse, determinando di conseguenza un ribasso dei prezzi azionari che in quegli anni avevano raggiunto livelli di sopravvalutazione. Il mercato crollò anche per via dei nuovi sistemi di trading automatizzato che fungevano da stop-loss, esacerbando i ribassi attraverso numerosi ordini di vendita.

Dopo il Black Monday, l’allora presidente della FED, Alan Greenspan decise di tagliare i tassi di interesse, inondando il sistema di liquidità.

6. Il bear market del 2008

Il mercato ribassista del 2007-2009 è durato circa 17 mesi, dal 9 ottobre 2007 al 9 marzo 2009. L’S&P 500 perse il 50% del suo valore e le cause sono da ricercare nella crisi dei subprime, nel collasso di Bear Stearns e di Lehman Brothers. Tra il 2004 e il 2006, la FED aumentò tassi di interesse ben 17 volte dall’1,0% al 5,25% per frenare l’inflazione e raffreddare un mercato immobiliare ultra-surriscaldato. Nel grafico il confronto tra i FED Funds (tassi di interesse USA) e l’indice S&P/Case-Shiller, rappresentativo dei prezzi delle abitazioni negli Stati Uniti:

L’aumento dei tassi di interesse incrementò il costo dei debiti per i mutuatari, soprattutto di quelli di bassa qualità creditizia: le insolvenze sui mutui aumentarono vertiginosamente e i prezzi delle case successivamente crollarono, scatenando lo scoppio della più grande bolla immobiliare della storia. Con l’economia in difficoltà, il FOMC iniziò a ridurre i tassi a settembre 2007, del -2,75% in meno di un anno. Nell’ottobre 2008, la FED effettuò due tagli di mezzo punto in poco più di un mese, una vera e propria emergenza. Il 16 dicembre 2008 la Banca Centrale decise di fare il possibile per stimolare la ripartenza dell’economia USA, annunciando tassi di interesse praticamente a zero e iniziando un nuovo tipo di politica monetaria, il QE. Anche se la FED iniziò il ciclo di ribassi dei tassi nel 2007, l’S&P 500 raggiunse il minimo nel febbraio del 2009, un anno e mezzo dopo.

Fonti:

  • Investopedia
  • FRED
  • Omega Wealth Management
  • Stock Investing Today
  • Vox
  • Marotta Wealth Management
  • Schroders

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